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Petrolio: trivellazioni targate Trump? Accoglienza fredda… come l’Alaska

FOSSILI

Nessun interesse per i diritti di trivellazione petrolifere relativi alla riserva naturale tra le più selvagge e incontaminate al mondo. Il balletto trivelle sì, trivelle no che va avanti dal 1977 è una coreografia complessa di funamboli in equilibrio che si barcamenano tra fattori ambientali, legislativi ed economici.

trivella

Accoglienza gelida - quasi quanto i territori oggetto del contendere - quella riservata all’asta per la concessione dei diritti di trivellazione petrolifera all’interno dell’Arctic National Wildlife Refuge, in Alaska, uno degli ultimi santuari naturali veramente incontaminati rimasti.

 

È stato proprio il Dipartimento dell’Interno (DOI), cui spetta la gestione e la tutela del demanio federale statunitense e cui appartengono i territori della riserva naturale, ad annunciare che la gara indetta dal Congresso per l’assegnazione di nuove licenze di perforazione è stata accolta con freddezza artica: nessuna azienda ha presentato la propria candidatura. Da procedura, le manifestazioni preliminari di interesse per i 400.000 acri di parco in concessione dovevano essere inviate al più tardi entro il 6 gennaio 2025. La casella di posta del DOI è rimasta vuota.

 

Con il plauso degli ambientalisti, nel 2023 il presidente Biden aveva rimesso sotto tutela gli 8 milioni di ettari del più grande rifugio faunistico nazionale del Paese, ripristinando il bando alle trivellazioni risalente al 1980 e annullando le licenze già in essere assegnate da Donald Trump durante il suo primo mandato, dopo oltre 30 anni di silenzio delle trivelle.

 

Nel 2017, appena salito in carica, il leader biondo platino aveva infatti sancito l’apertura del santuario naturalistico alle attività petrolifere, con l’approvazione di una bozza di decreto fiscale frettolosamente convertito in legge. Un’ impresa che, per sua stessa affermazione, né Ronald Regan né altri erano riusciti a compiere: era dal 1977 che i Repubblicani cercavano di mettere le mani sul petrolio della zona, senza successo.

 

In base al provvedimento, le concessioni avrebbero dovuto essere assegnate in due tornate entro il 2024. Nelle previsioni repubblicane, le royalties avrebbero generato 2 miliardi di dollari in 10 anni, metà destinate al governo dello Stato dell’ultima frontiera, metà a foraggiare i tagli alle tasse dell’amministrazione federale.

 

La prima asta si tenne nel 2021, due settimane prima che Trump uscisse di scena, e a onor del vero anche allora l’accoglienza fu a dir poco tiepida. Oltre a due piccole aziende cui furono assegnati due degli undici territori all’asta, l’unico offerente per le restanti nove aree fu l’Ente statale per lo sviluppo economico dell’Alaska. L’asta totalizzò offerte per un valore bassissimo: 14,4 milioni di dollari.

 

Al cambio di guardia, Joe Biden sospende le licenze assegnate. Le due realtà più piccole, incapaci di reggere l’incertezza, rinunciano. L’agenzia per lo sviluppo economico dell’Alaska, titolare delle licenze rimanenti, se le vede annullare legalmente: prima di indire la gara, il DOI non avrebbe adeguatamente valutato l’impatto delle trivellazioni sull’ecosistema protetto.

 

Quello di questi giorni non è dunque il primo flop. Secondo il Governo uscente questa seconda asta-fiasco in quattro anni sarebbe segno inequivocabile che «ci sono luoghi troppo speciali e troppo sacri per poter essere sfruttati», come dichiarato al New York Times da Laura Daniel Davis, vicesegretario ad interim del DOI.

 

La lettura dei fatti sembra meno romantica.  Il report del 2023 voluto da Biden ha limitato l’estensione dei territori cedibili alle aziende petrolifere, ridotti a 400.000 ettari, il minimo utile a non violare il decreto del 2017. La pezzatura risicata ha reso però poco appetibile investire su un territorio così difficile e impervio. Più che ambientale, la questione sarebbe dunque principalmente economica. Riluttanti anche le banche: per finanziare imprese in una terra priva di infrastrutture (e a volte persino di strade), la posta in gioco deve essere più alta.

 

Il balletto pluriennale del fronte del sì e del no ha una coreografia complessa.  Dopo le lodi degli ambientalisti per il ripristino del divieto alle concessioni petrolifere, Biden incassa però anche una citazione in giudizio da parte del Governo dell’Alaska, secondo cui la sforbiciata all’estensione di territorio cedibile appare da subito come garanzia di fallimento.


Tra le fila degli scontenti pare ovvio ci sia il governatore dell’Alaska, Mike Dunleavy, repubblicano e a capo di uno Stato le cui casse sono riempite per il 90 per cento dai proventi dei progetti petroliferi. Tra coloro che accusano Biden di aver sabotato l’asta sorprende invece trovare anche l’ONG di popoli nativi Voice of the Inupiat (VAI), dichiaratamente a favore dello sviluppo economico a base di petrolio.


Il loro appoggio ha sollevato più di un dubbio. A dicembre scorso, il Guardian aveva scoperchiato la pentola dei finanziamenti statali alle comunità indigene, rivelando che il VAI aveva ricevuto 1 milione di dollari «in cambio di una mano a neutralizzare l’opposizione alle trivelle di altri gruppi indigeni». Nagruk Harcharek, presidente del VAI dal 2022, sostiene che i fondi sarebbero serviti anche a iniziative di informazione sulla sfidante situazione dello Stato artico, e sull’importanza di irrobustirne l’economia; pertanto, ogni considerazione in merito all’argomento trivelle sarebbe da leggere in quest’ottica.

 

Intanto la seconda asta, che Biden aveva comunque deciso di indire rispettando il decreto del 2017, è andata deserta, chiudendo in qualche modo un cerchio in cui le parti devono nei fatti far quadrare economia locale, ambiente, dinamiche di mercato e appetibilità dei progetti.

 

Tra gli ambientalisti che esultano, affermando che «le compagnie petrolifere sembrano aver capito che trivellare in terre così remote è non solo troppo rischioso e complesso, ma anche semplicemente  sbagliato» e Mike Dunleavy che accusa Biden di aver gettato per quattro anni l’Alaska in un «incubo anti-sviluppo energetico destinato finalmente al termine con il ritorno di Trump», l’esasperante saga delle trivelle sembra destinata a protrarsi.

 

Per fortuna le parti che hanno più da perdere nella contesa - le oltre 300 specie che compongono la preziosa fauna locale - non leggono i giornali.


Carolina Gambino

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